1971/1980

FUSION

Mentre Goku e Vegeta, facendo un balletto e urlando “FU-SIO-NE”, si trasformano in Gogeta, il jazz e il rock si fondono e danno vita alla Fusion. Si, perchè verso la fine degli anni ’60 il rock pervade il globo terrestre ed il jazz trova nuova linfa vitale. Vengono introdotti strumenti elettrici tipici del rock. Non solo, sotto il cappello Fusion, il jazz si mescola con il Funk, oppure con il Rythm’n’ Blues, il Soul e così via…

Qui di seguito le pietre miliari del genere.

AlbumArtista
“Bitches Brew”Miles Davis
“Heavy Weather”Weather Report
“Head Hunters”Herbie Hancock
“The Inner Mounting Flame”Mahavishnu Orchestra
“Romantic Warrior”Return to Forever

Nato nella patria dei Blues Brothers, in Illinois, da che ha ricordi suona e studia musica. Destinato a diventare un genio, un creativo dalla personalità decisamente particolare.

Comincia presto a strombazzare nei locali della 57esima strada ad Harlem, in compagnia di due tipi a casaccio: Charlie Parker e Dizzy Gillespie.

Si spacca di Jazz e pure di eroina.

«”Miles, ormai è inutile che tu sprechi i pochi soldi che hai per comprare roba da sniffare, perché tanto starai male lo stesso. Sparatela, e vedrai che starai molto meglio”. Quello fu l’inizio di un film dell’orrore che durò quattro anni» (Miles Davis)

Quando si disintossica , mette su un gruppetto con nientepopodimeno che John Coltrane. Nel 1959 esce “Kind of Blue”, disco che rimarrà per sempre uno dei simboli del Jazz.

A Miles non piace il free-jazz, perchè lo ritiene troppo artificioso ed a quel punto comincia ad interessarsi agli strumenti rock. Nel 1964 butta giù due note improvvisate con un altro mostro sacro: Herbie Hancock.

Ci sballa con le sonorità di Jimi Hendrix e decide finalmente di aprire le porte al rock che, dopo essersi pulito le scarpe sullo zerbino, entra nel tempio del jazz come un bulldozer.

Il 19 Agosto 1969 Miles Davis, insieme ad un esercito di musicisti, si chiude nello studio di registrazione sulla 52esima strada di New York. Dopo 3 giorni di full immersion, le tracce sono fatte e l’impressione che si ha è che si tratti di una jam interminabile. “Bitches Brew” è quasi pronto, ma manca il lungo lavoro di post-produzione, di taglia e cuci e di inserimento di echi, riverberi ed effetti speciali. Uscirà nell’Aprile del 1970.

La splendida copertina è opera di Mati Klarwein, che creò anche quella di Abraxas (Santana). C’è tanta Africa rappresentata, quel luogo dove si è impiantato l’embrione della musica che, ad oggi, conosciamo. Guardo questa cover e percepisco l’origine di tutto, la spinta, l’energia. Terra, fuoco, aria e acqua. La culla della vita. No, non ho fumato robe strane.

Il titolo dell’album è un gioco di parole: “witches brew” indica un intruglio magico creato dalle streghe, donne perseguitate. Davis si diverte, usa la parola ambivalente bitch: termine dispregiativo verso una donna (“cagna”, “puttana”), mentre l’aggettivo derivato bitching sta per “fantastico, eccezionale”. A scanso di equivoci, dunque, “Bitches Brew” non vuol dire intruglio di cagne.

I puristi del Jazz che tanto osannavano Miles Davis, rimangono shockati e non ne vogliono sapere di ascoltare queste luride contaminazioni con un genere come il rock, creato da ignorantoni che non sanno leggere la musica.

Miles inizia a partecipare ai grandi concerti, dividendo il palco con artisti di altri generi come i Grateful Dead, Santana, la Steve Miller Band. Gli appassionati di jazz ovviamente non perdono occasione per accusare Miles Davis di essersi venduto, e i suoi accresciuti guadagni furono indicati come prova.

Nel 1970 partecipa al festival dell’isola di Wight e cerca un’occasione discografica con Jimi Hendrix, con il quale aveva in più occasioni suonato privatamente. Jimi muore e non se ne fa niente. Chissà cosa avrebbero partorito quei due.

Tra il ’70 ed il ’75 c’è un gran turn-over di musicisti, si avvale sempre della collaborazione di un folto gruppo che veniva chiamato: “La compagnia all’ingrosso dei suonatori di Miles Davis”. D’altronde lui è in costante ricerca di nuove sonorità, continuando a deludere i tradizionalisti conservatori del jazz.

In questo periodo, ricerca solo musicisti afro-americani, come fece il suo ex pianista Herbie Hancock.

«”Come vuoi che suoni, Miles?” “Suona come un negro”» (Miles Davis al percussionista Badal Roy)

Tra il ’75 e l’ 80 si ritira dalle scene per diversi problemi di salute (ulcera, artrite, diabete, borsite, ecc…) ai quali si aggiunge una rinnovata e potente ricaduta nella droga. Il tutto condito da una prorompente depressione. La gente lo da per spacciato, per finito… e invece no. Nel 1980 riemerge più pulito e adrenalinico che mai: si contamina con il pop di Micheal Jackson, l’elettronica, il soul, il funk di Prince, la New wave dei Public Image… e pure con il nostrano Zucchero.

BILLY COBHAM-SPECTRUM-

Billy Cobham vanta collaborazioni con Miles Davis, e la militanza nella leggendaria Mahavishnu Orchestra. Nomi proprio a vanvera, ecco.

Si tratta di uno dei batteristi più incredibili della storia, di una precisione e puntualità formidabili. Una vera macchina da guerra dietro alle pelli.

“Spectrum”, assieme a “Bitches Brew” è un album simbolo della Fusion. Tecnica e fantasia sono bilanciate perfettamente come gli ingredienti di uno di quei cocktail che bevi in scioltezza senza che ti faccia venir subito le biglie in bocca.

In questa costola del Jazz ritroviamo elementi dell’hard rock come la carica, la velocità ed un po’ di sane distorsioni. “Spectrum” è l’orgasmo dei batteristi: la batteria è in primo piano con i suoi continui cambi tom, cassa e rullante, le trasformazioni di battere in levare, i tempi dispari incastonati precisamente. Tra l’altro il chitarrista virtuoso è Tommy Bolin, futuro Deep Purple fortemente voluto da David Coverdale dopo aver ascoltato proprio “Spectrum”. Lo amo alla follia! PS: ascoltate il suo album solista “Teaser“.

Tornando a “Spectrum”, la canzone che preferisco è “Quadrant 4”: Billy Cobham picchia duro, la sua batteria è un treno che per poco non ti travolge. Poi partono gli assoli di tastiera e i fraseggi di chitarra…ciao. Energia che schizza da tutti i pori.

E comunque per me la Fusion è anche un po’ Frank Zappa. “Hot Rats” ne è un esempio lampante. Album strepitoso composto da un artista altrettanto megagalattico.

I più conoscono Zappa per la sua celebre “Tengo ‘na  minchia tanta“, ma dovete sapere che qui si parla di un mostro sacro dal repertorio anarchico.

Artista poliedrico di origini italiane, nemico dell’America di Nixon e Reagan, musicista senza un genere preciso ed è proprio questo il bello. A 19 anni io non sapevo cosa fare della mia vita, mentre Frank a quell’età costruisce uno studio di registrazione a Cucamonga ribattezzandolo “Studio Z” e con i pochi soldi guadagnati compra una chitarra elettrica.

Una volta lessi “Sto con la band“, la storia di una delle groupies più famose del rock e la protagonista- scrittrice Pamela Des Barres, che ha vissuto nello Studio Z in qualità di Baby-sitter della figlia Moon con altri comunitari, dedica una marea di parole di amore nei confronti di Zappa, descrivendolo un amico molto buono, dai modi gentili e bacchettone con chi usava stupefacenti (licenzia anche un musicista perchè fuma canne).

Zappa passa nottate con Don Van Vliet sotto le stelle del deserto del Mojave ascoltando rythm&blues e parlando dei loro sogni di musicisti. Frank in qualità di talent scout sente odore di talento e ribattezza Don come Captain Beefheart.

Frank con i suoi Mothers of Invention condensa energia e libertà con le idee dei freak californiani e compone il primo album “Freak Out!“. Dico solo che ha ispirato Paul McCartney & Co alla stesura di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band“. Avanguardia, contemporanea, free-jazz, blues: un cocktail mozzafiato che mischia il sacro ed il profano, la classica ed il rock. Questo album è ricco di  “supid songs”, ossia di canzoni volutamente superficiali nei temi trattati, ma al tempo stesso ricche di cucchiai al cianuro da dare in pasto al bigottismo ed all’ipocrisia culturale dell’epoca, canzoni stupide per prendersi gioco dei politici, rendendoli quasi delle caricature da fumetto. 

In questo periodo partecipa ad una trasmissione televisiva condotta dall’ex veterano acido Joe Pyne. Quest’ultimo era solito demonizzare i capelloni, sembrava avercela con il mondo intero e molti pensano che quest’aggressività fosse dovuta all’amputazione di una gamba durante la guerra. Frank si presenta con una chioma fluente e lunghissima che Satomi scansati. Pyne appena lo vede gli dice: “Certo signor Zappa che a giudicare dai capelli lei è una signorina!“. Lui risponde con nonchalance: “Lei signor Pine, a giudicare dalla gamba, è un tavolino“. E Pyne muto.

Nel maggio del 1967 esce Absolutely Free, il secondo album caratterizzato da critiche rivolte alla politica americana, mascherate da canzoni. La mia preferita è “Invocation and ritual dance of the young pumpkin“: la batteria è un treno, il flauto ed il tamburello hanno un certononsochè di esoterico, la chitarra canta un lungo assolo. Ti immagini in un bosco, a mezzanotte, a ballare scalza e con gli occhi chiusi attorno ad un fuoco, in balìa degli istinti. 

Nello stesso anno esce Lump Gravy, il preferito di Zappa nel quale lui sperimenta la contemporanea delineando le classiche sonorità zappiane.  

Seguono altri album memorabili fino a giungere ad Hot Rats, il primo della carriera solista di Zappa, senza i suoi “Mothers of Invention”.

Credo di avere consumato quel CD. Si apre con la piccola suite “Peaches En Regalia”, che forse è l’emblema del classico sound zappiano  : fiati, tastiere, pianoforte e chitarra si intrecciano dando personalità e coerenza all’armonia.

Il secondo brano è cantato dalla voce gutturale e quasi mefistofelica di Captain Beefheart, nei panni del pappone WIllie. “Willie the pimp” è un vero trip di suoni chitarrosi: effetti, wah-wah e sperimentazione di esecuzione,si parte da una melodia strutturata fino all’estrema improvvisazione per poi tornare alla melodia originaria.

Da menzionare i musicisti incredibili che danno corpo a questo sound:  il violinista  “Sugar Cane” Harris, il bassista Max Bennett ed il percussionista John Guerin.

Arriviamo alla mia preferita “Son Of Mr. Freen Genes” caratterizzata da un inizio tranquillo dalle sonorità baroccheggianti. I suoni si incrementano sempre di più fino ad arrivare al primo caldo assolo di Frank che è goduria pura. Si riprende la melodia di partenza, ma poi ci si stacca di nuovo, il brano si stravolge, si reinventa alla velocità della luce. Si arriva alla parte centrale durante la quale i peli delle braccia diventano dritti come di fusi: il susseguirsi di assoli di chitarra e di sax contrappuntato (da lacrime agli occhi), poi gli strumenti cantano assieme creando un binomio mozzafiato, fino a darsi un botta e risposta da “duello” dei suoni. Qui si raggiungono vertici elevatissimi. Quando ascolto Hot Rats mi viene voglia di mettere questo capolavoro in repeat all’infinito per essere trascinata ancora una volta in questo vortice di bollenti virtuosismi.


Si giunge al jazz di “Little Umbrellas” con il contrabbasso che apre la pista ad un sound sinistro, come se ci fosse un serpente che striscia sinuosamente tra i fili d’erba alla ricerca della preda. Arriviamo al riff di basso di Bennett che in “The Gumbo Variations” fa largo al sax di Underwood, il quale magistralmente da il via ad un flusso di coscienza del sax che muta continuamente e che sembra non finire mai. Io vado in visibilio quando subentra il violino avanguardista acido e stridulo di “Sugar Cane” Harris.


L’album si chiude con la pacatezza di “It Must Be A Camel”: mi risulta difficile l’ascolto, perchè mi ricorda il free jazz in cui ogni musicista segue la propria strada senza badare a ciò che fanno gli altri. Preferisco il Zappa frenetico dei brani precedenti.

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