1961/1970

GARAGE ROCK

Abat-jour accesa in sala, papà seduto con un braccio dietro la testa mentre sorseggia un amaro Santa Maria, Ivan sbragato dall’altra parte del divano, io in mezzo ai miei due uomini meravigliosi,  la mamma è sdraiata sul suo divanetto (quand’ero piccina picciò mi acciambellavo accanto a lei, ma poi mi è cresciuto il culo). Pigio il triangolo del “Play” sul telecomando, inizia “Animal House”.

Ad un certo punto i miei padiglioni auricolari percepiscono per la prima volta un brano garage rock. La chitarra sgangherata dal suono un poco fuzz, la voce acuta, a tratti graffiata e con alcune note calanti del cantante, come se fosse sotto effetto di alcol (proprio come Belushi mentre la canta nel film), la sonorità grezza della batteria che va dritta fino alla fine.

Quel riff mi entra in testa come un mantra.  Devo sapere di che pezzo si tratta. “Louie Louie” dei Kingsmen. Il cantante Ely sembra sbiascicare parole incomprensibili, perchè, a detta sua, la sera precedente la registrazione, ha cantato 10 ore di filato. Roba da Guinness World Record. In più ha l’apparecchio ai denti, il microfono è posizionato troppo alto.. cioè della serie: ho cantato da schifo, ma non me ne faccio una ragione. Mancavano le cavallette e la pioggia di rane.

Questi versi smangiucchiati del testo, scomodano l’FBI.

Un educatore della Sarasota High School, che aveva una figlia adolescente ed una mentalità degna del Pleistocene, scrive una lettera incacchiata al procuratore generale degli Stati Uniti Robert Kennedy, denunciando il testo disinibito di “Louie Louie”.

Si diffonde pure la voce che, facendo girare il 45 giri a 33 giri, si potessero udire parole offensive (curiosa e bizzarra, la mente umana). L’establishment si attiva per indagare e fermare quello che considera uno scempio: un testo pieno zeppo di riferimenti sessuali e termini taboo. Alla faccia dei trapper del momento.

Le emittenti radiofoniche boicottano il brano, ma i Kingsmen sono inarrestabili raggiungendo la seconda posizione nella Billboard Hot 100.

L’ FBI interroga i Kingsmen e i discografici: l’indagine dura due anni.

“Gli agenti si presentavano ai nostri concerti e si piazzavano accanto agli amplificatori per cercare di carpire qualsiasi eventuale parola fuori posto”

(Mike Mitchell, chitarrista)

Alla fine della fiera, pure l’FBI si arrende: “Louie Louie”, nella versione dei Kingsmen, è incomprensibile a qualsiasi velocità. 

Tornando a noi, questo pezzo mi garba, mi documento e scopro che il genere si chiama Garage Rock, perché  i gruppi (spesso con line-up scarna chitarra-basso-batteria) si incontrano, suonano e registrano nei garage di casa. La gioia del vicinato.

Poche musse: suono grezzo e minimalista, lo-fi, low cost; una sorta di r’n’r più ruvido che tra il 1963 e il 1967 esce dai garage ed entra nei club del Canada e degli Usa. 

I complessi sono formati da giovani sbarbatelli teen-ager che compensano la mancanza di peli sugli stinchi, facendosi crescere i capelli a caschetto. Indossano vestiti alla Carnaby Street. Si atteggiano da ribelli. Vogliono fama, tipe e danari da sperperare. Strimpellano classici blues, senza saperne le origini black: li hanno ascoltati alla radio nelle versioni rivisitate dei gruppi inglesi. Solo che, al contrario dei gruppi inglesi, quelli Garage durano il tempo di uno o due 45 giri e finiscono nel dimenticatoio. Solo adesso si comprende la loro potenza. 

Greg Shaw

Lenny Kaye e Greg Shaw, due archeologi del punk, ravattano nei mercatini delle pulci e scovano gioiellini musicali e registrazioni amatoriali del tempo. Le ricerche sono ancora in corso. Continua la caccia assidua alle colonne sonore dei film del filone “giovanile”, perchè molte band dell’epoca, non trovando nulla di meglio, accettavano volentieri di suonare nelle scene dei party. 

Comunque, se adesso ti andasse di metter sul piatto del giradischi un vinile Garage, noteresti il sound che suona ancora fresco ed eccitante a vent’anni di distanza, puzza di sudore adolescenziale che aleggia nel garage. 

Il 1966 è l’anno top del garage punk, le case discografiche ci prendono gusto e smazzano contratti a decine di gruppi, ma finita l’estate la magia svanisce e questi giovani musicisti si trovano di nuovo chiusi nei box.

La rivista Rolling Stone, che da tanta visibilità al movimento hippie, non gliene può fregar de meno del Garage Rock, mentre la fanzine “The Beat” ne parla eccome.

Il genere subisce mutazioni nelle sonorità, in base all’epicentro d’origine.

Più  psichedelico in Texas e California (Count Five e Syndicate of sound su tutti: si sente l’influenza del Surf Rock), più morbido a Boston, più sporco a Seattle (Sonics all’apice), più secco a Detroit (dove poi evolverà nel proto-punk degli Stooges di Iggy Pop e degli MC5).

Kingsmen, Wailers, Standells, Strangeloves, Shadows of the Knight, Awboy Dukes, Question Mark & The Mysterians.. ma i veri top di gamma del genere sono i The Sonics. Provare per credere.

Il Garage Rock è un genere Revival, perché nella storia viene ripescato come una trota del Trebbia e usato come base per altri generi, dal Punk ’77 al Grunge degli anni ’90. 

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