1920/1960

SWING

L’origine dello Swing spiegato a modo mio.

Dopo la crisi economica del ’29 gli americani hanno un po’ le ossa rotte e le tasche vuote.  Hanno bisogno di spensieratezza, di distrazione, di dimenarsi ed ecco lì che un giovane bianco di nome Benny Goodman  utilizza un tempo costante nel Jazz rendendolo più ballabile e via via che la canzone prosegue avviene un’esplosione di suoni, si accelerano progressivamente toni, timbri e contrappunti. In una parola: Swing.

Trombe, tromboni, clarinetti, sax contralto, baritono e tenore, pianoforte, contrabbasso, chitarra e batteria: un orgasmo acustico. Ragazzi, quando parte “Sing, sing, sing” di Benny Goodman non rispondo del mio corpo: metto olio nelle articolazioni, le mie gambe si snodano, le mie anche si sciolgono e parto con delle coreografie improbabili (specialmente quando passo l’aspirapolvere). E’ un tripudio di energia, con quella batteria che pompa ritmo primitivo. Si, forse proprio per questa catarsi primitiva tiro fuori l’animale da palcoscenico (simile ad un gibbone) che tengo celato nel mio corpicino. Scuoto la testa con fare sensuale poco credibile, sentendomi un po’ Betty Boop. Muovo le spalle scrollando il petto. Dimeno braccia e gambe in modo alternato. Sembro una tarantolata. Sudo, ma appena finisce son felice, quindi sposto il braccio del giradischi e ricomincio.

Un certo Count Basie di Kansas City decide di mettere su una corposa banda di giovani musicisti disposti a far ballare e volteggiare le persone. Questa nuova moda delle grandi orchestre viene chiamata Swing Era e compositori come Glenn Miller, Fletcher Henderson, Woody Herman e Duke Ellington contribuiscono a diffondere lo swing, grazie anche alle radio che trasmettono le canzoni giorno e notte, prima durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il successo di questo genere deriva anche dal cinema, grazie ai primi film con il sonoro; alcuni lungometraggi hanno addirittura lo swing come protagonista (Fred Astaire e Ginger Roger vi dicono qualcosa?).

Ovviamente il quartiere dal quale si diffonde lo swing a macchia d’olio é Harlem, il quartiere degli afroamericani, dove la gente ha la musica impressa nel corredo genetico. Spettacolo,  pagherei oro per tornare in quegli anni e vivere infanz3e adolescenza in quell’humus fertile musicale, dove probabilmente avrei imparato a ballare osservando i passi di  Norma Miller E Frankie Manning, tra un salto e una piroetta nel Ballroom del Savoy di Harlem…e forse mi sarei scatenata con loro in una Big Apple o uno Shim Sham!

LO SWING IN ITALIA

Tra i miei millemila lavoretti, anni fa sono stata segretaria di una super  scuola di Lindy Hop, il ballo che si svolge sulle armonie dello swing. Brano dopo brano mi sono addentrata in questo mondo baldanzoso, delicato e che profuma di cipria e di scarpe di pelle. Da lontano lì ho cominciato ad ascoltare swing a random, senza concentrarmi particolarmente sulle discografie degli artisti, ma ci sballo con quello italiano. I testi sono allegri e scanzonati e le musiche sono uno spasso. In un’Italia dominata storicamente dalla canzone melodica e dallo stile del belcanto dei tenori Beniamino Gigli, Enrico Caruso e Tito Schipa, finalmente arriva un po’ di leggerezza.

IL TRIO LESCANO

Queste tre donzelle olandesi Alexandrina, Judik e Kitty sono un simbolo d’indipendenza femminile, di donne che ce la fanno senza mariti e padri alle calcagna, in barba alla cultura patriarcale dell’epoca! Hanno successo prima del secondo conflitto mondiale. Poi, Chissà come mai, in pieno regime fascista cambiano i nomi negli italianissssimi Alessandra, Giuditta e Caterina. Dopo qualche anno Mussolini vuole dar loro la cittadinanza italiana, peccato abbiano la mamma ebrea, mannaggia! La madre scappa in un posto segreto, mentre loro continuano a cantare fino al ’43, dopodiché la raggiungono nella località  in cui si nasconde. Queste pagine nere (nel vero senso della parola) della nostra storia, non hanno permesso di scrivere altrettante pagine di cultura innovativa, di nuovi suoni provenienti da altri paesi. Ci si congela, non si va avanti. La radio manda spesso Carlo Buti e la sua “Faccetta nera”. 
Le tre sisters continuano a vivere nell’anonimato fino al termine della guerra e non riusciranno più a raggiungere il successo precedente. I loro tulipani non rifioriranno mai ed i loro virtuosismi canori appassiscono definitivamente. Che schifo la guerra.

NATALINO OTTO

Natale Codognotto nasce (immaginate un po’) il giorno della vigilia di Natale del 1912 a Cogoleto, nella riviera ligure di ponente. Da piccolo indossa le scarpe da tip tap, per la felicità  dei vicini  di casa, poi decide di suonare il tamburo (di male in peggio). Grazie ai soldini guadagnati dai suoi lavoretti riesce a pagare le lezioni di batteria. Porta strumenti, cavi jack ed amplificatori ai musicisti delle orchestre genovesi. Insomma,  fa una bella gavetta fino a quando riesce ad imbarcarsi sul transatlantico “Il conte di Savoia” per suonare il suo strumento e cantando con un megafono davanti alla bocca.

Un precursore di Peter Rivera dei Rare Earth e di Phil Collins. Natalino, cullato dalle correnti oceaniche, conosce gente, impara cose, assorbe nuove sonorità esterofile come una spugna. Nel ’35 fa amicizia con un batterista jazz pazzesco, ossia Gene Krupa, dopodiché con un violinista italoamericano, ossia Joe Venuti. Quest’ultimo gli propone di trasferirsi negli USA, ma Natalino, ligure fino al midollo, sente che deve tornare nei suoi luoghi verdi come il basilico e blu come il mare che lambisce la costa. E poi inizia a non sopportare tutti ‘sti foresti. Al rientro porta con sé un trolley colmo di “americanitá”. Si tratta di un bagaglio importante: in epoca fascista vengono censurate le sue canzoni straniere e così facendo decide di tradurle.

Con un eufemismo il regime definì le sue canzoni “barbara antimusica negra”.

Così “St. Louis Blues” diventa il mortificante “la tristezza di San Luigi”. Durante un concerto a Bergamo, alcune camicie  nere entrate nel locale in cui si stava esibendo, chiedono di eseguire l’inno fascista “Giovinezza” di Beniamino Gigli, ma lui se ne batte il belino e inizia ad intonare “Maestro Paganini ” (che peraltro Ella Fitzgerald adorava cantare). A sfregio. Lo si ama profondamente. In quegli anni ovviamente i mezzi di comunicazione erano gestiti dal regime: l’EIAR, ossia l’Ente statale che si occupava dei programmi radiofonici, decide di non passare alcun brano di Natalino Otto e si vocifera che nei suoi studi fosse affisso il cartello “È severamente vietato trasmettere dischi di Natalino Otto”.

A proposito di controllo dei mezzi di comunicazione, il fondatore e direttore del giornale “Fiamma Repubblicana” , il chiavarese nero nerissimo Vito Spiotta, pigia i tasti della macchina da scrivere mettendo insieme queste parole: “È ora di finirla con canzoncine cretine in cui uno, fra conati di vomito e strabuzzamenti di occhi, dice di aver trovato la fidanzata, di aver preso 3 in geografia e di aver un sassolino nella scarpa“. Nonostante tutta questa buona pubblicità, Natalino vende una fraccata di dischi e si esibisce continuamente sui palchi. Ogni 2 mesi fa uscire un disco; insomma, lo stakanovista Otto scrive e compone incessantemente. Nel 1962 si ritira dai palcoscenici per dedicarsi alla produzione. Sente profumo di talento nell’aria, avvertendo la nascita e la presenza dei Beatles nel globo, ne fiuta il talento mostruoso. Intuisce il futuro successo planetario. Vorrebbe diventare il loro produttore italiano, ma ha paura di essere sovrastato e travolto dalla loro grandezza talmente sconfinata da non riuscire a gestirla. E C’AVEVA ragggione!

Mio nonno Romildo (il mio sassofonista preferito) lo ha conosciuto personalmente ed ha condiviso delle serate con lui. Lo dipinge come un uomo umile, minuto e molto energico. Purtroppo  muore d’infarto a 56 anni. Ogni tanto gli porto un fiorellino al cimitero degli Angeli, perché quando ascolto é come se avessi la percezione di essere in connessione con lui. Fin da piccola ho ascoltato i suoi brani leggeri come le ali di un colibrì: “op op trotta cavallino” e “ho un sassolino nella scarpa” andavano in repeat nel giradischi!

FRED BUSCAGLIONE

Nel 1921 nasce a Torino Ferdinando, ma per tutti è “Fred” perché come dice lui “fa più America”. A 11 anni inizia a frequentare il Conservatorio. Quando cresce si stufa della musica classica e si riempie i timpani di jazz. Suona violino, contrabbasso,  pianoforte, tromba e le corde vocali. Timbro unico, caldo, intrigante. Durante la Guerra arriva la chiamata alle armi e lui va in Sardegna, dove diventerà prigioniero degli Americani. Si distingue per il carisma ed il talento entrando a far parte dell’orchestra della radio alleata di Cagliari: il Quintetto Aster! Rimane affascinato dalla cultura americana. Finisce la Guerra, torna a Torino esibendosi nei locali fino a quando il paroliere Leo Chiosso lo noterà.  Nasce un sodalizio: Leo ci mette i testi, mentre Fred la sua aria da gangster americano, da seduttore con una perenne sete di Whiskey.
Si trasferiscono nello stesso palazzo in Via Eusebio Bava 26 bis, i due appartamenti sono sullo stesso pianerottolo. Spesso bussano alle rispettive porte di casa, stanno ore a parlare, a scambiarsi  idee: Leo scrive parole e Fred pigia i tasti sulla tastiera per mettere insieme qualche nota.
Busca si fa crescere un bel paio di baffetti, indossa il doppiopetto gessato ed un cappello a larghe falde alla Clark Gable, ha perennemente il sigaro acceso all’angolo della bocca, la sua fronte é corrugata e le sopracciglia accentuano le smorfie da bel maschione.

Le canzoni come Che bambolaTeresa non sparareEri piccola cosìLove in PortofinoPorfirio Villarosa (ispirata alla figura del celebre playboy Porfirio Rubirosa), Whisky facile, parlano di sobborghi di New York e Chicago animati e vissuti da gente dura, da bulli e pupe.
Nel 1949 a Lugano conosce Fatima, un’acrobata e contorsionista. Fred la corteggia a più non posso, ma il papà  di lei non é che sia particolarmente d’accordo. I due fanno una fuitina in una notte innevata: salgono su una slitta trainata da un cavallo e fuggono. Lei si converte al Cristianesimo e così si sposano in chiesa nel ’53. Il rapporto é burrascoso, Fatima é gelosa di un marito che gioca a fare il gangster con la passione per donne e alcool. Lui si gongola, ma spesso accade che personaggio e persona coincidano, basti pensare che in un’ Italia percorsa da Seicento e Topolino, Fred ha una Ford Thunderbird lilla, pergiunta.


Ed è proprio a bordo di quell’automobile che mercoledì 3 Febbraio 1960,dopo una nottata intensa, fa un incidente andando contro un camion carico di tufo.
“Folle d’amore vorrei morire, mentre la luna di lassù mi sta a guardare” recitava Buscaglione in “Guarda Che Luna”…e nel febbraio del 1960 la Luna ha guardato da lassù la sua dipartita.
Una vita al massimo, sia nella finzione che nella realtà, e una morte tragica che ha proiettato Fred Buscaglione direttamente nel mito.

Chissà cosa avrebbe combinato il nostrano grezzo crooner? Sicuramente avrebbe continuato a fumare una sigaretta, mentre sorseggia Whisky appoggiato al bancone di un bar dei bassifondi e rimanendo a bocca aperta al passaggio di una bella donna prosperosa.

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