1920/1960

MOTOWN – TAMLA SOUL-

Detroit: un operaio che lavora in una fabbrica di automobili, ex-boxeur fallito con una vecchia carriera da pappone, reduce della Guerra di Corea, separato dalla moglie e con 3 figli da mantenere, ma che per diletto scrive canzoni, acquista un bungalow al 2648 di West Grand Boulevard. Fonda la Tamla Motown (Motor+Town, per onorare la propria città d’origine). 

Dite “ciao” a Barry Gordy, l’uomo che negli anni ’60 mandò in crisi le classifiche di Billboard. In uno schiocco di dita questa etichetta indipendente  diventa la più grande corporation capitanata da un nero (a quei tempi non era scontato). Il pubblico al quale si rivolge è eterogeneo: non comprende solo adulti che possono mettere mano al portafoglio per acquistare dischi, ma si iniziano a coinvolgere i giovani minorenni.

Gordy lancia vinili a go-go, come fossero frisbee, anche per l’organizzazione serrata in fase di produzione: i gruppi di compositori, di produttori e di turnisti erano fissi. D’altronde Gordy, avendo lavorato in fabbrica,  ha pensato bene di traslare il modus operandi della catena di montaggio tipica di Ford, alla sua casa discografica.

Per me l’arte nasce dal sentimento e gli artisti che raggiungono il successo planetario sono quelli che suonano nelle strade intrise di smog di Detroit. Dapprima calcano i marciapiedi e gli altari delle chiese, poi i più grandi palcoscenici.

Il sound Motown è molto melodico dominato da pastose linee di basso, è meno grezzo e ruspante rispetto alle concorrenti. Pulsa meno la vena nera: scompaiono i gospeliani “call-and-response”, i botta e risposta tra voce solista e cori, in favore di suoni più  lirici. Vengono creati ad hoc gruppi vocali come i Four Tops, le Supremes e Martha and the Vandellas. Le loro voci vengono assemblate come i pezzi di un motore e, solo se insieme, emettono un rombo potentissimo.

Dietro a tutto ciò c’è la triade Brian Holland-Lamont Dozier-Eddie Holland: loro scrivono musica e testo dei più grandi successi Motown, mentre la stragrande maggioranza dei cantanti sono interpreti.

The Four Tops

Personalmente il solista baritonale dei Four Tops mi fa impazzire: quando intona “I can’t help myself” con vena malinconica e a tratti disperata,  tu che la ascolti devi sperare di non esser uscita “da una storia di tre anni con un tipo” (cit. Eelst), altrimenti qualche lacrimuccia appesa alle palpebre rischia di farti vedere doppio.

“I can’t help myself, I love you and nobody else”

Martha &The Vandellas

Rosalind Ashford ha doti canore invidiabili ed appena compiuti i 14 anni, la madre la esorta ad esibirsi per un provino. Rosalind si fa accompagnare dall’amichetta del cuore Annette Beard. L’impresario che si occupa di selezionare talenti per un gruppo vocale femminile le assolda entrambe, improvvisando un’audizione anche all’accompagnatrice Annette.

Le due BestFriendsForever vanno ad unirsi al duo Gloria Williamson e Martha Reeves. Quest’ultima a 16 anni si esibisce nei locali di Detroit, cantando standard jazz a blues ed una sera viene avvicinata da Stevenson, un manager della Motown che le lascia un biglietto da visita. Lei va in studio, ma si ritrova a dover gestire le chiamate in entrata, perché Stevenson è troppo impegnato per farlo. Viene assunta inizialmente come segretaria,  ma ben presto viene notato il suo talento musicale. A quel punto chiede di chiamare all’appello anche le altre 3 compagne di groove. Si spalancano loro le porte di casa Motown.

Ecco a voi Martha and the Vandellas.

Partono facendo il coro in qualche brano di Marvin Gaye (leggete più in basso, vi parlerò di lui), fanno la loro gavetta. Gloria esce dal gruppo come Frusciante, mentre Martha diventa la leader del neo-trio. Incidono “Dancing in the street”, scritto da Jo Hunter abbozzando qualche nota sul pianoforte, convinto che si trattasse di una melodia triste. Fa ascoltare il tutto all’amico Marvin Gaye il quale sostiene che quella linea melodica facesse venir voglia di ballare in strada! Ecco fatto, titolo pronto all’utilizzo.

Gaye e Stevenson mettono insieme un testo in mezz’oretta, citando buona parte delle città toccate dal loro tour (New York, Chicago, Philadelphia, Detroit, New Orleans, Baltimora, Washington DC ). Raggiunge l’apice delle classifiche nel 1964, anche se in seguito viene tolta da alcune playlist radiofoniche, in quanto viene suonata durante le manifestazioni  dei diritti civili dei neri d’America. Citando varie città, “Dancing in the street” viene vista come un invito, rivolto agli afroamericani, ad andare a manifestare in strada.

È stata interpretata da tantissimi artisti, ma il top è stato raggiunto nel 1985: “Dancing in the street” cantata dal vivo da Mick Jagger e David Bowie. Il co-autore Jo Hunter dopo questo evento ha guadagnato fior di quattrini grazie ai diritti d’autore. In un’intervista dice persino che avrebbe voluto baciar le chiappine dei due mostri sacri. È stata anche la sigla di “Easy Rider”, lo speciale per gli appassionati di motori, in onda dopo il TG della domenica in Rai, fino al 2019. Qui di seguito un live che immortala l’esibizione di Mick Jagger, Bowie, Paul McCartney, Elton John, Mark Knoplfer e… dai, provate a riconoscere gli altri!

The Supremes

Diana Ross, Florence Ballard e Mary Wilson sono le The Supremes, ma ben presto verrà scelta Diana Ross come suprema tra le supreme, ribattezzando il nome in “Diana Ross & The Supremes”. Diana, il cui sogno principale era quello di lavorare come stilista, diventa una star e oltre ad essere la Lead Vocal del gruppo, cerca di dare libero sfogo al suo estro occupandosi anche di trucco, parrucco ed abbigliamento del terzetto. Il loro brano più famoso è “You Can’t Hurry Love” e come quasi tutti i successi della Motown é stato scritto a tavolino dalla triade geniale Brian Holland-Lamont Dozier-Eddie Holland. Brian scrive la melodia ispirata al gospel, mentre Eddie butta giù qualche frase. Inizia il pezzo e ci si trova subito a schioccare le dita a tempo con le percussioni, poi il bridge corale che ci fa saltare al ritornello: 

“My mama said: you can’t hurry love

No you just have to wait

She said love don’t come easy

It’s a game of give and take”

In un’intervista Eddie Holland dice che al posto della parola “Love” potrebbe starci qualsiasi sostantivo, perchè è il significato globale della canzone che deve interessare: non fiondarti a capofitto nelle situazioni senza prima prenderti del tempo, non avere fretta, prendi la direzione giusta senza precipitarti nella sconosciuta selva oscura. È stata realizzata  anche la versione italiana del brano: le carine e super pop Supremes cantano “L’amore verrà”. Quanta tenerezza.

MARVIN GAYE

Marvin Pentz Gay jr nasce in una famiglia superiperstramega-religiosa, il padre, autoritario e dal fare coercitivo, è un reverendo apostolico della Chiesa Ebrea Pentescostale; Marvin fin da piccolo fa vibrare le cordicine vocali e spazzzia: al padre sale la bile perché è invidioso delle doti canore del figlio (roba da matti). Emblema della pedagogia, esempio di sana genitorialità. 

Per fortuna Gaye , che nel frattempo si fa aggiungere una “E” al cognome per evitare le prese per i fondelli, non si demoralizza e continua a cantare. Nel 1956 si arruola nell’Air Force, gli fanno svolgere un ruolo che non  gli piace e allora decide di far finta di essere matto come un cavallo per farsi congedare.

Incontra Harvey Fuqua, leader degli Harvey And The Moonglows, uno dei gruppi doo-wop più noti della East Coast, insieme ai quali registra il primo disco per la Chess Records nel 1959. Due anni dopo conosce il futuro cognato Berry Gordy Jr , nonché fondatore della Motown.

“Se  aveste in tasca un dollaro, comprereste questo singolo o un panino ?” chiede Gordy alla commissione addetta al controllo della qualità del materiale Motown. Dal 1963 in avanti Marvin Gaye inizia a sfornare un sacco di “panini” .

Innanzitutto comincia a collaborare con quella grande di Tammi Terrell, con cui, nel 1967, incide “Ain’t No Mountain High Enough”. Durante un concerto al  Hampden–Sydney College lei si accascia tra le braccia di Marvin. Le verrà diagnosticato un tumore al cervello. Da lì in poi Gaye ha un tracollo e decide di ritirarsi dai palcoscenici per un bel po’.

“I Heart It Through the Grapevine” esce nel 1968, si munisce di funi e moschettoni e scala le classifiche. La canzone parla di un tipo che viene a sapere di avere due grosse cornazze sulla capoccia. È incredulo, ci rimane di stucco quando viene a sapere che la fidanzata preferisce un altro.

Ma cosa vuol dire “I heard it through the Grapevine”? 

È un modo di dire, risalente al periodo degli schiavi, che avevano inventato una loro forma di “telegrafo”, un passaparola denominato, appunto, “human grapevine” (la vite umana). Forse per dare l’idea di groviglio, di ramificazioni di “voci”.

A proposito di “voci” (preparatevi ad uno stream of consciousness), mi viene in mente un simpatico aneddoto riguardante il mio Prof. universitario prefe. Sul forum di Fuckoltà, dove noi studenti potevamo confrontarci, una ragazza scrisse: “Ho sentito delle voci riguardo l’esame di psicologia dei processi cognitivi, secondo le quali il prof, che fa i mazzi, farebbe 10 domande a risposta aperta” e lui le rispose direttamente: “Anche Giovanna d’Arco sentiva le voci e sappiamo tutti che fine abbia fatto”. Ovviamente ho voluto lui come relatore della mia tesi magistrale.

Torniamo a bombazza a Marvinone bello sgnappolone.
Anna Gordy ed il marito Gaye collaborano e nel 1971 le loro menti partoriranno l’album

“What’s Goin’ On” (1971)

Ci si chiede cosa stia accadendo. Tanti sono i cambiamenti in atto negli anni Settanta : lotte per i diritti civili, la guerra nel Vietnam. “God Is Love” la dice lunga circa la fede religiosa del cantante, ma nell’album si parla anche dei problemi dei giovanissimi in “Save The Children“, della gente di colore in “Inner City Blues“,  o dell’inquinamento industriale in “Mercy Mercy Me (The Ecology)”.

Let’s Get It On (1973)

Mentre ascolti questo disco diventi un fuoco. Vampate ormonali. Ok, la voce più  “mmmh, ohu yeah” ce l’ha indiscutibilmente Berry White, ma il sound è di Marvin. Immaginate una combo White e Gaye? Da chiamare i Vigili del Fuoco.
La title track è un’ode all’atto scesciuale (come avrebbe detto Anna Marchesini nei panni della sessuologa). Sensualità avvolgente. Non si percepisce solo la “carne”, ma anche lo spirito, il trasporto, l’anima. È musica che fa l’amore con i timpani. E perché  no, un’ottima colonna sonora.
Superfluo citare brani, ma, dovendo, il consiglio va all’irresistibile invito di “Come Get To This” e allo struggente desiderio per l’amore lontano di “Distant Lover“.

Here, My Dear / In Our Lifetime (1978 e 1981)

Marvin Gaye a metà anni Settanta divorzia dalla moglie Anna. Sopraggiungono pure dei problemi fiscali. Si consola abusando di droghe e vivendo in un furgone. Fortunatamente si pseudo riprende, incanalando il suo dolore nella composizione dell’album “Here, My Dear” formato da brani con riferimenti  belli espliciti alla sua condizione: si parla di fine di un amore, di separazione, di affidamento dei figli, di litigi con la nuova compagna. Sembra un album catartico in cui  l’autore compone con il cuore (ferito) in mano, sbattendoti sul muso la sua cruda realtà. Il tutto condito da arrangiamenti stellari.

Altri tormenti per il disco “In Our Lifetime“ concepito tra strisce di cocaina inalate e forti contrasti con la nuova moglie. Doveva chiamarsi “Love Man” ma la Motown boicotta il progetto e preferisce i brani più commerciali. Pubblicato senza il suo consenso, diventa il simbolo di un ennesimo divorzio, quello dalla storica etichetta. Il disco è funkeggiante e frizzantino, ma un fiasco totale. Peccato. 

Quindi Marvin divorzia con la Motown e firma con la Columbia. Cade in piedi, il ragazzo. Incide, purtroppo, il suo ultimo gigantesco  successo “Sexual Healing” (vi prego sentite la versione di Ben Harper). Un brano capace di fargli ottenere i suoi primi due Grammy Award, per la Miglior voce maschile R&B e per la Miglior strumentazione R&B.

La figura negativa di un padre violento che minaccia di morte i figli se non avessero fatto ciò che lui desiderava, ha indubbiamente influito sulla salute mentale di Marvin. Anima tormentata ed autolesionista. Carnefice di sé stesso, abusa di droghe, tenta il suicidio più  volte, diventa paranoico e non si muove senza i bodyguards. Sprofonda nella depressione, boccheggia, non riesce a stare a galla. Torna a casa dei genitori dopo l’uscita del suo ultimo album, “MIDNIGHT LOVE” (1982). Spera di trovare rifugio nella loro casa di Los Angeles e invece troverà tutt’altro. 
L’1 aprile 1984 il cantante interviene durante l’ennesima lite tra i suoi genitori. Volano parole grosse e spintoni. Lui osa difendere sua madre. Il padre esce dalla camera e rientra poco dopo con la Calibro 38 (regalatagli proprio dal figlio a Natale) e sparò a Marvin due colpi. Inutili i tentativi di rianimazione. Marvin Gaye Jr. morì un giorno prima di compiere il suo 45esimo compleanno.

STEVIE WONDER

Nasce prematuro di qualche settimana in una città del Michigan. A causa della prematurità non riesce a  completare lo sviluppo del sistema visivo e ciò  gli provoca una retinopatia. Viene messo in un’incubatrice guasta che in pochi secondi gli sgancia una botta di ossigeno che, a quanto pare, influisce definitivamente sulla vista, causando la cecità del piccolo Stevie.

Insomma, la sua vita inizia in salita, ma in pochi anni raggiunge la vetta piu alta, quella del successo planetario. A 4 anni suona il pianoforte, poi l’armonica, la batteria e chi più ne ha, più ne metta. A 11 anni il cantante dei Miracles lo nota e lo segnala a Berry Gordy della Motown. In tempo zero ottiene un contratto discografico e registra “Recorded Live- The 12 year genius”. Si, è un genio.

Per capire l’entità del suo talento mettete in cuffia a cannone “Fingerstips” I e II. Stevie Wonder era troppo impegnato a spazzziare di brutto a quell’età,  mica come la SouLady di Genova Sampierdarena. Io alla sua età, dopo scuola, andavo in piazzetta a sbranarmi slerfe di focaccia, poi partitona a nascondino o ad una olandese volante e poi a casa a fare i compiti. Avevo l’apparecchio, il mio corpo iniziava a cambiare, la colata di ormoni mi faceva puzzare le ascelle e ci andavo giù pesante di pianti: avevo una cotta gigantesca per il cantante dei Meganoidi, tutte le mie amiche ci andavano a bagnissimo con Leonardo di Caprio dopo l’uscita di Titanic. Io no, io ero particolare, io ci sballavo con le basette di Davide Di Muzio… ma questa è un altra storia. 

La voce di Stevie è da bimbo, ma potentissima e dinamica. Viene chiamato Little Stevie Wonder. Le corde vocali crescono con lui e incide “Uptight-Everything is alright”, brano leggero ma che segna l’inizio del cambiamento vocale e del nome dell’artista: lascia indietro l’appellativo Little ed è pronto ad entrare nel mondo dei grandi. Anche Stevie ha il testosterone che sbuca da ogni poro, diventa un Don Giovanni, corteggia persino le tipe in Chiesa e chiede di poter dare loro lezioni di piano private. Un po’ come la scusa della collezione di farfalle.  Dai, ora concedetevi del tempo e guardate questo Stevie sbarbatello che da mani di bianco.

Dagli anni ’70 Stevie produce e compone gli arrangiamenti dei suoi album. Se la canta e se la suona (e se la compone). Escono dischi e singoli a tutto spiano. Il Soulman del Michigan non conosce sconfitta e flop.

Inutile che io mi dilunghi nel descrivervi tutti quei suoi brani che sono entrati a far parte della mia vita fin dall’adolescenza. Ricordo, però, quando in cameretta misi ad un volume imbarazzante “Sir Duke”,  entrano mio fratello Ivan e mia nonna che cominciano a ballare. Ho la scena impressa  nella memoria, soprattutto le movenze della mia nonnona che, dall’alto del suo quintaletto di peso,  dimostrò una certa agilità  nei movimenti tra un balzo ed un altro. Famiglia di matti. Gli Osbourne ci fanno un baffo.

Poi c’è la leggerezza e la voglia di vivere che mi trasmette “Signed, sealed, delivered i’m yours”, quando cammino per la città con questo brano nelle orecchie, mi viene da sorridere ai passanti, da saltellare con leggiadria, da roteare attorno ai pali della luce come fa Gene Kelly in “Singin’ in the rain”. Allegria pura. 

Quant’è fikerrimo?

Ora vi do un compito: leggete i titoli di questi brani di Wonder (e cover) e non ditemi che non vi viene subito la voglia di canticchiare il ritornello. “Superstition”, “Master Blaster”, “Don’t worry ’bout a thing”, ” I just called to say i love you”, “Part-time lover”, “You are the sunshine of my life”, “Blowin’ in the wind”, “You really got me”, “We can work it out” e “For once in my life”. Sono sicura che mentre scorreva il vostro sguardo sui titoli, ne avrete intonate tra i denti e a bassavoce  almeno 3/4..vero? 

In generale quasi tutta la discografia di Stevie mi manda in visibilio, anche se le soul-ballad mi fanno venire l’orticaria. Il suo respiro tra una parola e l’altra, a tratti l’affanno per l’eccesso di grinta, sono suoni da campionare, sono patrimonio dell’umanità. Amo questo artista, perché non è solo un cantante straordinario,  ma è pure un polistrumentista, un compositore e produttore. È impegnato per i diritti civili, ha istituito una giornata contro la violenza e le discriminazioni razziali, ossia il 15 Gennaio, il compleanno di Martin Luther King ; “Happy birthday” diventa il simbolo di questa campagna sociale che stevie porta avanti da anni. Mi fa impazzire il grintoso giro di blues in cui si intreccia il sintetizzatore di “Living For The City”: il testo denuncia le discriminazioni razziali subìte ogni giorno in città  dai cittadini neri. 

Vogliamo parlare della potenza di “Higher ground”? Questo brano parla di voglia di redimersi, di purificazione, di riconoscenza nei confronti di Dio, o di chi per esso, per la seconda opportunità data. 

“I’m so darn glad He let me try again,

cause my last time on earth I lived a whole world of sin

I’m so glad that I know more than I knew then

Gonna keep on tryin’

Till I reach my highest ground”

“Sono davvero grato che Egli mi abbia permesso di riprovarci,

perché la mia ultima(precedente) volta sulla terra, ho vissuto un mondo pieno di peccato

Sono grato di sapere adesso, molto più di prima,

Continuerò a provarci,

fino a raggiungere il mio livello più alto (inteso come consapevolezza interiore)”

Ironia della sorte questo brano fa parte di “Innervisions“, album uscito qualche giorno prima di un brutto incidente automobilistico, nel quale Stevie rischia di perdere la vita. Al suo risveglio non percepisce odori e sapori e, colto dal panico, chiede che gli venga portato il suo adorato clavinet per capire se avesse mantenuto o no la capacità di suonare. Inizialmente è terrorizzato, ha paura di prendere in mano lo strumento perchè teme il fallimento,  ma poi inizia a suonare e un bel sorrisone si stampa sul suo bel viso. Il Soulsinger afferma che lui, ovviamente, ha composto il brano prima dell’incidente, come se fosse stato un segno del destino.

“For me, I wrote Higher Ground even before the accident.

But something must have been telling me that something was going to happen to make me aware of a lot of things and to get myself together.

This is like my second chance for life, to do something or to do more, and to value the fact that I am alive.”

– Stevie Wonder –

Da quel momento sfrutta ogni live per raggiungere ed avvicinare le persone, consapevole che i concerti siano il suo principale mezzo per riuscirci.

E io un anno volevo andare a vederlo al “Lucca Summer Festival“, ma, non avendo il dito più veloce del web, rimasero solo i biglietti per i posti gold a 250 euro l’uno. Essendo povera, umilmente, me lo son preso nello stoppino con molta amarezza e frustrazione. 

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